lunedì 30 aprile 2018

IL SILENZIO È LA TERRA DOVE TUTTO VIENE GENERATO

Esiste un luogo senza rumori. Sorge nel cuore della città di Piacenza. È un'isola di silenzio. È il Monastero Benedettino di San Raimondo. Emerge dal caos delle strade, al numero 154 di Corso Vittorio Emanuele II. Una porta. Una chiesa. La clausura.
Dentro queste mura, ogni cosa parla la lingua del silenzio. Piccoli lumi e grate, banchi di legno, quadri, confessionali. Le cose qui vivono di luci ed ombre, s'acquietano. E si scopre un tempo nuovo. Senza più ore, né giorni. I minuti divengono una questione di luce. Perché Dicembre filtra attraverso i vetri e tace. E tace l'inverno tutto, si posa sui lucernari. Il ciclo del cielo compie il suo viaggio, dall'alba al tramonto. Senza fare rumore. Nella notte, le monache benedettine si svegliano. Abbandonano le celle. Senza luce percorrono i corridoi. I loro passi conoscono le distanze, le presenze, vedono anche senza vedere. Raggiungono la cappella. Le mani bianche e il buio intorno. Come cieche, tracciano un segno di croce sulla propria bocca. Ed una voce si fa corpo: Signore, apri le mie labbra.
«Le monache pregano, spezzano il buio con la parola. E la parola non conosce clausura. Valica le grate. Nasce come sussurro e cresce. Si espande come un mantello di preghiera su tutto il popolo», svela Madre Maria Emmanuel. È l'Abbadessa del Monastero. Era un medico specializzato in malattie infettive. Ora porta stoffa bianca sul collo, un velo nero sul capo. È lei il faro di questa isola di silenzio. Seduta ad un tavolo di legno, Madre Maria Emmanuel parla del silenzio, come se fosse terra a riposo, tra la semina e la raccolta. La sua voce è pacata, lieve.
«Il silenzio è humus. È la terra dove tutto viene generato. Il silenzio è il terreno fecondo, dove prendono forma la parola, l'ascolto, l'amore. Per comprendere chi siamo, abbiamo bisogno di silenzio. Se rifuggiamo il silenzio, rischiamo di costruire le cose sulla superficie. Noi siamo uomini di cute. Accarezziamo la nostra pelle, ma non possiamo penetrare noi stessi. Il silenzio, invece, ci riporta in profondità, sottocute, ci permette di attraversare la carne, il cuore. Così il silenzio diviene l'espressione più vera di noi stessi, quello che poi noi riusciamo a generare».
Il silenzio qui è ovunque. Si fa cornice, Madonna, fiore. È palpabile, è tangibile. Occupa un suo spazio, ha realmente un posto dentro il mondo. Il Monastero di San Raimondo ne è il rifugio, la culla. Dona al silenzio lo spazio necessario. Una chiesa, una sagrestia, una cappella. Un chiostro, un refettorio, un orto in cui germogliare. E piccole stanze, celle abitate da letti, armadi, libri. La preghiera del mattutino. La compieta, alla sera. Il silenzio come casa. Tra la mani di Madre Maria Emmanuel il silenzio diviene nodo. È un rosario opaco, composto da piccoli croci di corda. È simbolo di una preghiera antica, di poche parole. Va pronunciata sottovoce, ripetuta incessantemente, fino a diventare una sola cosa con il respiro e il battito del cuore. Così il silenzio ha la consistenza della corda e si amalgama alla voce. Si fa corpo, si fa aria.
«Il silenzio lascia emergere ciò che vi è di più bello nel tuo cuore. Ti porta a dire la preghiera che hai formulato, dentro di te, e non ancora pronunciato. Il silenzio cambia la tua voce. Il silenzio plasma la tua voce perché plasma il tuo cuore. Il silenzio permette di ritrovare quella parola che è stata seminata dentro di te, e che germoglia dentro».
Il silenzio è preghiera e germoglio. È la ricerca di una parola antica, originaria, custodita nell'angolo più intimo dell'anima. Lì vi è incisa la nostra identità, il nostro segreto. Il nostro mistero. Chi siamo. Da cosa siamo sopravvissuti. Dove andiamo.
«I primi monaci si allontanavano dalla città per ascoltare la Parola, e far sì che la Parola incarnasse il proprio cuore. Si ritiravano nel silenzio. I padri del deserto hanno avuto il coraggio di staccarsi dal mondo per tornare al mondo con una parola vera, decantata, autentica, non superficiale. Le persone cercavano questi monaci, per trovare in loro parole di speranza e misericordia. La gente aveva sete della loro voce. Per incontrarli, attraversava il deserto. Ora è la città che è diventata un deserto. La gente corre, non si conosce, è frastornata. Ha tanti dubbi, tristezze. Il Monastero, qui, nel cuore della città, è una locanda dello spirito, un pronto soccorso aperto ventiquattro ore al giorno».
Il silenzio è cura, medicina, medicamento. «Il silenzio va amato, cercato. Non bisogna difendersi dal silenzio. Scegliere il silenzio significa scegliere l'essenziale, ritrovare l'autenticità di noi stessi e degli altri. Ora tutti rifuggono il silenzio, perché ascoltare se stessi è doloroso. Riappropriarsi della propria anima è la cosa più difficile. Ma è solo ritrovando se stesso che l'uomo ritrova Dio».
La voce di Madre Maria Emmanuel è come cera. Scivola lenta, dentro l'aria, e la riempie, avvolge ogni cosa di calore e pacatezza. Ha la consistenza delle mattine chiare, dell'acqua che riposa. Nella sua voce, tutti i grandi avvenimenti di Dio trovano luce nel silenzio. Perché l'universo è stato creato nel silenzio. Perché Dio si è fatto bimbo, nella notte, nel silenzio di una grotta. E perché la morte di Cristo ha avvolto il Golgota di silenzio. Poi la resurrezione.
«La resurrezione è avvenuta nel silenzio. Nessuno se n'era accorto. Solo una pietra è rotolata via dal sepolcro, senza fare rumore. Perché l'amore vince sulla morte, con una forza che non si impone, ma si propone. Poteva forse accadere la resurrezione nel rumore, nel fragore dei sassi che rotolano? No, vi èpudore, vi è tenerezza. È Dio che parla sottovoce».
Se il silenzio ha una sua voce, Madre Maria Emmanuel ne conosce ogni sillaba. Ne conosce l'impasto e il mistero. Sa raccontarlo, lasciandolo libero di divenire terra, nodo, germoglio. E quando è sera, Madre Maria Emmanuel ne svela l'ultimo segreto: «È dal silenzio che nasce il canto».
Dopo i rintocchi di una campana, nell'ora dei vespri, le mura della chiesa vengono abitate dal canto. Cónditor alme síderum, ætérna lux credéntium. Prendono forma in note e seminote, le preghiere agli astri e alle terre. Le voci delle monache cantano il silenzio. E il silenzio invade l'aria, si unisce alla melodia di una cetra. S'innalza. Si spinge oltre le grate. S'irradia oltre i lucernari. Raggiunge il cielo, tutti i cieli possibili.   di Melissa Magnani da Festival Letteratura Mantova

A tu per tu con Madre Maria Emmanuel Corradini

"Essere figli"
Abbiamo bisogno di essere amati, di riappropriarci dell'uomo.
"Ascolta figlio, apri docile il tuo cuore" (San Benedetto)
Quando siamo amati ci sentiamo figli...

domenica 29 aprile 2018

V Domenica di Pasqua: Rimanere


“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Dove noi rimaniamo, dove stiamo?
Normalmente dove sentiamo la presenza dell’amore, dove lo vediamo e lo tocchiamo.
Quindi rimaniamo se riusciamo ad amare.
Rimanere però non è un verbo molto amato oggi: dà l’idea di staticità, mentre, nel contesto odierno, tutto si basa sulla velocità, sul distacco. Anche quando si tratta di vivere insieme si dice: - Proviamo se va… Crediamo poco alla fedeltà che giorno dopo giorno costruisce rapporti.
Rimanere, stare attaccato alla vite, invece significa continuare a generare frutti.
Solo chi sta in Gesù riesce a rimanere: non in maniera statica, ma rimanere con il cuore, mentre i piedi e le mani vanno, sono in movimento…
Dove vivo l’esperienza del rimanere? Dov’è il luogo in cui Dio mi ha posto? Come rimango, con docilità ed entusiasmo oppure con durezza e affanno?
Devo prendere esempio dal rimanere di Cristo che santifica la mia vita e tutto quello che faccio.
Tutto ciò che compio rimane, la conseguenza di tutto ciò che faccio rimane nella storia, anche il gesto più semplice come preparare un piatto per il figlio che arriva in casa è grande se fatto in Cristo.
Ciò da un respiro enorme alla nostra vita.
Il mondo invece ci classifica in base a ciò che siamo e facciamo, in base ai nostri biglietti di visita.
Mentre se sono di Cristo, tutto porta lui, non dobbiamo più preoccuparci di apparire, di giustificarci…
Anche davanti all’incuranza degli altri che non si accorgono delle mie difficoltà delle mie fatiche, se rimango in Gesù non c’è lacrima che non venga raccolta nel suo otre. Questo va nell’eterno, questo rimane…
San Paolo dopo la caduta da cavallo in cui ha vissuto la cecità anche del cuore. Ha avuto bisogno di anni di conversione.
Il suo cammino di introduzione alla chiesa non è stato facile, Barnaba e Anania lo hanno aiutato.
La chiesa è un luogo dove siamo con le braccia aperte, come il tralcio che sta tra la vite e il frutto.
Paolo ha imparato a stare in mezzo, a non essere la vite e non contare i frutti.
Ciò fa ripensare al verbo rimanere, perché Cristo possa passare nella vita degli altri.
Ma io sono contento di essere un tralcio, o lo trovo inopportuno?
Vorrei essere vite da cui tutti dipendono, oppure solo un frutto che raccoglie la fatica degli altri?
Gesù ci chiede di essere tralci, di stare in mezzo, far passare la vite e donare i frutti.
Paolo rimanendo in mezzo potrà scrivere pagine stupende come “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”.
Anche noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci introduca, che poti tutto quello che è superficiale.
La vite quando è potata piange rimane spoglia rugosa, brutta all’apparenza, ma è così bello vedere le sue foglie che partono da un tronco che sembra morto e diventano di un verde sgargiante, poi rosse destando ammirazione.
Quindi anche su di noi, nonostante siamo storti e deboli, spunta la vita ed è una vita feconda che germoglia…
Amen
(Trascrizione non rivista dall’autrice)


mercoledì 25 aprile 2018

Solennità di Santa Franca


 Vitalta, Piacenza, 1175 - Pittolo, 25 aprile 1218

Santa Franca nacque nel 1175 da famiglia nobile del piacentino. Giovanissima entrò nel monastero benedettino di San Siro, dove pronunciò i voti solenni. Nel 1198, alla morte della badessa Brizia, fu eletta al suo posto. La decisione di introdurre nel monastero la vita regolare le suscitò contro forti opposizioni, sia da parte di alcune nobili famiglie piacentine che avrebbero visto volentieri un'altra a capo delle religiose, sia da parte di un gruppo di monache, capeggiate dalla sorella del vescovo Grimerio (1199-1210), il quale, però, illuminato da san Folco Scotti, allora prevosto di Sant'Eufemia, fece cessare ogni opposizione. Per desiderio di maggior perfezione, nel 1214 accolse l'invito e l'esempio di Carenzia Visconti, che aveva fondato sul Montelana un monastero femminile cistercense. Ne ebbe la nomina a badessa pur conservando, per qualche tempo, l'amministrazione di San Siro. La comunità si trasferì presto per ragioni di sicurezza e di comodità a Pittolo, facendovi sorgere un monastero che Franca resse fino alla sua morte, avvenuta il 25 aprile 1218. (Avvenire)

Lectio di Madre Emmanuel
Celebriamo la solennità di santa Franca accompagnati, in questi giorni, dal Vangelo giovanneo del “Buon Pastore”.
Anche Franca è stata un pastore, una badessa: ha condotto un gregge, ha influito sulla città, sul popolo… Infatti quando una donna è di Dio la sua santità passa le mura.
Santa Franca è rappresentata con un pastorale e ciò ci dice che il bastone e il vincastro del pastore sono quelli di Gesù: chi conduce non fa sua la condizione e il gregge, ma è espressione di Cristo.
Santa Franca ha usato il bastone contro le bestie selvatiche e i serpenti presenti dentro il monastero e fuori nella città. Ha protetto il Vangelo e la regola, cioè ha usato il bastone per indicare la via, la verità, la vita, per guidare il gregge, per mostrare Cristo.
Tante volte noi stiamo zitti per paura dei giudizi degli altri e soffriamo la verità del vangelo perché riteniamo che la parola non debba avere la sua forza e la sua efficacia. Ma quanto è virile e forte questa donna non per sé, ma per il Signore: parla, sta in silenzio, prega o agisce per lui.
Il bastone di legno ci rimanda alla croce di Cristo. Anche per essere forti bisogna essere umili, andare contro corrente, capaci di sopportare parole, ingiustizie e calunnie.
Cosa uso per correggere gli altri? Cosa faccio per il Signore, perché regni nei cuori?
Franca non ha permesso che l’abitudine, l’apatia potesse prendere il sopravvento.
Mediante l’umiltà, la forza è la capacità di dire la verità ha condotto il gregge con fortezza e dolcezza: a volte parlando, a volte tacendo e ascoltando.
Infatti, come Santa Franca, quando si è uniti alla Croce, veniamo irradiati dall’umiltà e dalla mitezza di Cristo che passa a noi.
In questo modo sapremo portare le pecore grasse, come le pecore magre, gli agnellini sulle spalle, ma anche le pecore che scalpitano e vogliono andare per loro conto.
Si tratta di cogliere l’umiltà e la pazienza per attendere i tempi di Dio.
Tutto questo santa Franca lo ha vissuto e noi dopo 800 anni ricorriamo ancora a lei come esempio di “pastore” per la chiesa intera.
Amen
(trascrizione non rivista dall’autrice)        


domenica 22 aprile 2018

IV Domenica del tempo di Pasqua: Il Buon Pastore

Il Buon Pastore - Cristobal Garcia Salmeron 1660

Nel Vangelo di Giovanni 10,11-18 ascoltiamo: “Io sono il buon pastore”; affermazione che Dio da di se stesso, espressione di bontà e di amore.
Anche nell’incontro con il giovane ricco Gesù afferma che uno solo è buono e si riferisce a Dio Padre. Ciò dovremmo portarcelo sempre alla mente, quando il buio nel cuore e le situazioni di difficoltà ci fanno tremare, ricordiamoci che siamo tenuti tra le mani di un pastore che è buono e come tale cerca la bontà e l’amore.
Nella vita si è pastori, si conducono delle persone, ma nello stesso tempo non si smette mai di essere pecore che seguono.
Sant’Agostino dal Discorso sui pastori afferma:
“Quando Cristo affida le pecore a Pietro, certo gliele affida come uno che le dà a un altro distinto da se, tuttavia desidera che Pietro sia una cosa sola con lui”.
Cristo e Pietro sono uniti come lo sposo e la sposa, Gesù chiede a Pietro, ben tre volte, se lo ama.
Quindi significa che tu puoi pascere perché sei unito a me.
La domanda, “Mi ami?”, fatta a Pietro è rivolta anche a noi. Infatti se amiamo possiamo prendere a carico le persone affidateci e dare la vita per loro.
Perciò alle persone a cui tu fai da pastore insegnerai il Signore. Ecco la grandezza dell’unità. Quando sono pastore devo permettere che Cristo possa amare attraverso di me.
Allora quando, tante volte, noi facciamo fatica ad accettare l’altro non è solo una difficoltà di sensibilità e di predisposizione…
L’abate Lepori dice che, in una comunità monastica, quando non si amano le sorelle o i fratelli, non è solo una questione di “piace o non mi piace”, “vado d’accordo oppure no”. Siccome ci ha messo insieme lo Spirito Santo, quando non si va d’accordo e non si ha empatia, apertura nei confronti degli altri, è una questione di fede. Significa che manco di fede se non vado all’altro.
Allora noi cristiani abbiamo perso questo sguardo di fede sulle pecore che ci sono state affidate, sui familiari, sui fratelli e le sorelle, manchiamo di amore e di carità.
È un grande cammino di conversione per noi, un tragitto che la risurrezione ci porta a fare. Significa non vedere più gli altri nella loro carne mortale, ma vederli come figli di Dio.
Quando gli altri ci offendono e sono diversi da quello che vorremmo evitiamo l’incontro, oppure li eliminiamo come purtroppo succede e come vediamo nel mondo.
Bisogna essere una cosa sola con Cristo per poter amare le pecore che ci sono state affidate, in questo modo conosceranno il Signore che è un vedere del cuore.
Il Vangelo chiede un processo di cammino interiore sia del pastore che delle pecore, dove uno va verso l’altro e tutti confluiscono in Cristo per dare la vita.
Le pecore seguono non tanto perché hanno capito tutto, ma perché si fidano, non per grandi elucubrazioni personali, ma semplicemente perché si sentono amate.
Ecco: il voler bene, la fiducia è un cammino, bisogna dare tempo alle pecore di conoscere il pastore, ma anche il pastore non può bruciare le tappe, deve avere il tempo dell’amore, il tempo opportuno della carità.
Un camino richiesto a noi in quanto pecore che porta a dare la vita come lo è stato per Santa Franca, per suor Lionella, per tutti i santi: uomini e donne che sono stati pastori di un gregge capaci di dare un grande amore come conseguenza del loro rapporto con Gesù.
Amen
(trascrizione non rivista dall'autrice)

domenica 15 aprile 2018

Riscoprirsi figli e ritrovarsi padri e madri

Meditazione di Madre Maria Emmanuel in occasione della grande Festa della Famiglia del settembre 2017.

"Ho paura, come genitore, di dire che conosco un Dio che è Padre..."

















III Domenica di Pasqua: Gesù stette in mezzo a loro

Cena in Emmaus - Caravaggio, Pinacoteca di Brera
Dopo l’incontro con Gesù, i discepoli di Emmaus ritornano a Gerusalemme, il luogo da dove erano scappati. Vi tornano con il cuore che arde, pieno di calore, di gioia e annunciamo il “Risorto” ai discepoli nel cenacolo.
Eppure quando Gesù appare a loro con il saluto di Pace, il vangelo racconta: “Sconvolti e pieni paura credevano di vedere un fantasma” (Lc 24,37).
Ma come è difficile credere alla resurrezione, come è difficile credere che Gesù è vivo e risorto…
Abbiamo paura di ciò che invece dovrebbe dare speranza a tutta la nostra vita.
Ho paura di Dio, della sua azione, che sia vivo e che possa agire nella mia vita… che non possa gestirla come io desidero, eppure è indispensabile che Gesù venga a me come il vivente.

“Gesù in persona stette in mezzo al loro” (Lc 24,36).  Anche sulla Croce Cristo era in mezzo, tra due ladroni
Dio si pone sempre in mezzo come centro: re di tutti gli uomini.
La sua posizione è centrale ed essere in mezzo significa anche ripartire le forze
Gesù è al centro della mia vita? È il punto fondamentale da cui riparte tutto il mio vivere?
Cristo è pure il centro che guarisce anche le mie chiusure e paure, se Lui è in mezzo alla mia vita vi porta ordine, che è il frutto della pace.
Gesù dà una priorità, mette in scala tutto ciò che è fondamentale e mette fuori tutto ciò che è superfluo.
Quindi porta dal disordine all’ordine, dalla dispersione all’unità.
Abbiamo bisogno che la nostra vita sia unificata. A volte sembriamo dei puzzle: siamo spezzettati al lavoro, in famiglia, in comunità, cioè frantumati e dispersi.

“Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24,39)
Gesù mostra loro le mani e i piedi, significa che è passato attraverso la grande tribolazione, ci ricorda che è morto per noi. Egli raccoglie anche le mie ferite e debolezze. Lui vive in me una debolezza permanente, ma gloriosa.

“Nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” (Lc 24,47).
Cominciare da Gerusalemme il luogo della sconfitta, del tradimento, degli sputi, della crocifissione.  Significa ripartire dalle nostre debolezze: Pietro riparte dal suo tradimento, accolto e accettato, per poi diventare il capo della chiesa, Paolo riparte dalla sua caduta a cavallo…
Ripartire dalla nostra situazione più debole può diventare momento di grazia
L’uomo, ricominciando dalle proprie cadute, può dire al mondo che Cristo è veramente risorto.
I cristiani quindi non sono dei super eroi, ma coloro che partono dalla loro debolezza attraversata però dalla risurrezione di Cristo.
Devo accorgermi che Gesù mi ha riconciliato con me stesso, mi ha ridato la pace, sta nel mio cuore vive in me.
Amen     
(Trascrizione non rivista dall’autrice)                          

domenica 8 aprile 2018

II Domenica di Pasqua: della Divina Misericordia

"Incredulità di San Tommaso", Caravaggio, olio su tela, 1601
Se fossimo lasciati soli a noi stessi, anche se splende il sole, non saremmo in grado di poterlo gustare.
Difficilmente sappiamo apprezzare le cose di Dio e quindi anche di noi stessi, mentre la divina Misericordia ci aiuta a vedere l’amore dov'è: nelle persone, nel creato, nell’Eucaristia e nella Parola.
“La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli” (Atti 4,32 – 34).
Quando si è un cuor solo e un’anima sola con Dio e tra di noi, non si ha più bisogno di niente.
La comunione con Dio e con i fratelli non crea delle reali necessità, il necessario c’è già stato dato: nessuno era bisognoso, avevano tutto perché avevano l’amore…
Quindi svaniscono i bisogni personali, di cui il nostro io non è mai sazio, le nostre esigenze e l’accentramento su noi stessi.
Se noi considerassimo i bisogni degli altri più importanti dei nostri saremmo sempre in continua uscita.
Essere in uscita è proprio questo: creare spazio a Dio e agli altri, non solo un fare che, da solo, non serve a niente.
Quindi l’amore fa da collante ai nuovi membri della comunità cristiana.
Quando c’è l’amore, in una famiglia, in una comunità: non manca più niente. Ciò non significa mancare di vulnerabilità, di fragilità, di cadute, ma l’amore, il perdono, la carità, la vicinanza ti rimettono in piedi.
Chiediamoci perché, nelle nostre famiglie, comunità e chiesa locale, si fa fatica ad essere un cuor solo e una anima sola?
Quando manca l’amore crescono in modo esponenziale i bisogni dell’uomo.
I primi cristiani tutto quello che avevano lo vendevano e lo deponevano ai piedi degli apostoli.
Ritornano questi piedi che abbiamo già incontrato più volte: sparsi di profumo a Betania, lavati agli apostoli nell’ultima cena, inchiodati sulla Croce e infine, nel Vangelo di oggi, toccati da Tommaso.
Bisogna partire dai piedi: l’umile gesto di mettersi in ginocchio davanti agli altri.
Significa pure riconoscere un’autorità che deve essere vissuta anche nelle nostre relazioni: tra genitori e figli, genitori e Dio, con un padre e una madre spirituale… Vuol dire scoprire i carismi che il Signore ha dato.
L’autorità, se esercitata secondo Cristo, serve per fare verità.
Dal deporre ai piedi, si impara il servizio, l’umiltà, si apprende lo stare in ginocchio per la propria famiglia, chiesa e comunità.
Sono i piedi che Tommaso vuole vedere, non gli è bastato ascoltare il racconto dei suoi fratelli, lui vuole sperimentare l’amore.
Gesù ci sta, non lo rimprovera perché Cristo, lasciandosi toccare, in realtà lo raggiunge con il suo amore.
Quando riceviamo l’Eucaristia noi tocchiamo l’amore e questo si travasa in noi.
Riconosciamo e impariamo sempre per grazia, questa ci precede sempre...
Abbiamo bisogno di conferme nella nostra fede, ma dall’altra parte abbiamo Gesù che ci rassicura.
Domenica della misericordia: l’umiltà di Dio ci viene a toccare e travasa in noi tutto il suo amore, coscienti di tanta benevolenza mettiamoci in ginocchio per consegnarci a Lui.
Amen
(trascrizione non rivista dall’autrice)

domenica 1 aprile 2018

DOMENICA di PASQUA: le donne del Vangelo

"La tomba vuota" Kiko Argüello - Chiesa Ss.Trinità Piacenza
Cristo è veramente risorto. Alleluia.
Il sepolcro è stato, come diceva Tonino Bello una “collocazione provvisoria”, è stato un passaggio, ma Lui è vivo è qui in mezzo a noi.
Lo comprendiamo anche guardando a coloro che erano accanto a Gesù.
Le donne, nel vangelo di Marco, sono quelle che vanno al sepolcro al mattino presto. Hanno osservato da lontano, durante i giorni precedenti alla Pasqua, gli avvenimenti, ma ci sono sempre state.
Una donna ha sparso il suo profumo sui piedi di Gesù per dire che quei piedi e quel corpo gli appartenevano come affezione fondamentale della sua vita.
Poi Maria sotto la Croce, insieme alle altre donne, accoglie tra le braccia Gesù lo avvolge e lo riporta come nel grembo da cui l’aveva generato. Accogliendo Lui fa nascere la chiesa.
Mani di donna, mani che lavano i piedi, mani che abbracciano, mani che profumano e avvolgono in un sudario il corpo di Cristo
Donne che osano, escono, non stanno a guardare da che parte sono i discepoli, il potere… Vanno dall’Amato, vanno dove la chiesa le manda. Donne che sanno servire, stanno al loro posto accanto ai discepoli.
Da tempo ci si chiede sempre che ruolo ha la donna nella chiesa?
Basterebbe leggere il Vangelo e, come abbiamo capito la collocazione di Pietro e di tutti i discepoli, capiremmo anche il ruolo della donna nella chiesa.
Dalla donna descritta dal Vangelo di oggi, emerge una persona che sa credere, che sta accanto a Gesù e dà a Lui il primato.
Il ruolo della donna è riportare Cristo al primo posto e additarlo come unico, necessario al cuore dell’uomo.
Si legge che i discepoli si disperdono che Pietro tradisce, Giuda lo bacia e lo consegna, ma le donne rimangono. Loro riescono a mantenere il primato del cuore di Cristo.
Offrono la vita, hanno visto appendere Gesù, nudo sulla croce e quel corpo bianco è già l’Eucaristia.
Se noi salviamo Cristo nel nostro cuore, se lo cerchiamo se osiamo per lui, ci porta dall’altra parte, ci fa attraversare la vita.
"Discesa agli inferi" Kiko Argüello - Chiesa Ss.Trinità Piacenza
Le donne partoriscono nel dolore, ma sono disposte a soffrire per dare la vita.
Abbiamo bisogno di riprendere questi ruoli, di soffrire per gli uomini che ci sono stati affidati, di stare accanto ai discepoli, ai ministri e difenderli da tutto ciò che li attacca.
Abbiamo bisogno di donne che, nell’Eucaristia, trovano veramente il cibo, l’alimento per vivere l’eroico quotidiano, come la possibilità di spezzarsi per gli altri e quindi di generare la vita.
Le donne hanno intuito di andare oltre il sepolcro e come oggi, in una giornata in cui sfolgora il sole, la gioia non si può più contenere.
Ecco la dimensione della gioia: non donne tristi, non donne ripiegate, non donne vittime della propria storia.
Donne che corrono, che hanno un annuncio più grande di loro stesse.
Lui è vivo, è risorto, non è qui! Come poterlo annunciare? Mettiamolo sulla bocca di una donna e questa anche se ha avuto un passato difficile, per cui maggiormente credibile, lo saprà testimoniare.
Amen
(trascrizione non rivista dall’autrice)